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L’identità della persona con demenza

Quasi 50 milioni di persone nel mondo soffrono di demenza e, almeno in base alle previsioni attuali, questa cifra sarà triplicata nel 2050 .

La demenza rappresenta una tra le sfide più ardue della medicina, sia per l’onere assistenziale che comporta, che per i costi economici conseguenti.

Una sfida anche sotto l’aspetto etico del rispetto della persona e del riconoscimento del suo valore, pur in una situazione di salute compromessa.
Infatti, viene spesso condivisa una visione della demenza come di una patologia che annulla la percezione del proprio vissuto e porta a vivere in un eterno presente, senza passato, senza futuro.
Certamente il progressivo deterioramento a livello cerebrale e la conseguente compromissione funzionale determinano modificazioni sostanziali nella personalità del paziente .
I familiari soffrono per la difficoltà di portare avanti il legame affettivo, che può configurarsi come un vero e proprio senso di perdita. La demenza non comporta soltanto disabilità e dipendenza per la persona malata, ma causa anche profondi effetti negativi sulla famiglia e sugli operatori.
Infatti, parallelamente alla progressiva compromissione delle funzioni della memoria, si verifica una situazione di disorientamento spaziale - il paziente non riconosce più l’ambiente in cui si trova - di disorientamento temporale; può avere fenomeni di “misidentificazione” (ad es., scambiare i propri familiari per altre persone o anche per estranei).
Ciò genera nel paziente, sin dalla fase iniziale della malattia, gravi sofferenze psicologiche: dall’ansia per il futuro connessa al timore della dipendenza e alla perdita dell’autonomia e della capacità decisionale, al disorientamento esistenziale dovuto alla progressiva difficoltà di “riconoscersi” e di “riconoscere”.
Spesso il caregiver, di fronte alla difficoltà del paziente nel comunicare, la attribuisce automaticamente alla disgregazione dei procedimenti logici, rafforzando la convinzione che la persona con demenza sia incapace di esprimere non solo bisogni, disagi, desideri, ma anche sentimenti ed emozioni.
Ne deriva quindi la considerazione del demente - soprattutto in fase avanzata di malattia - come una “non persona”, un “guscio vuoto”, nei confronti del quale non esiste più alcuna possibilità di interazione.
Identità personale e demenza
L’identità personale è quindi un problema peculiare nella malattia di Alzheimer. In assenza di una conoscenza e di una comprensione condivisa, si rischia di far sperimentare più acutamente alla persona la depersonalizzazione, la perdita di indipendenza e di diritti sociali e politici.
Ne conseguono diversi interrogativi:
 che cosa si conosce dell’identità dei pazienti affetti da demenza?
 quali capacità sono assenti e quali capacità sono intatte?
 le persone affette da demenza in fase avanzata hanno ancora desideri e volontà?
 l’assenza di atteggiamenti emotivi significa che sono incapaci di provare emozioni?
 vi è ancora una qualche modalità di interrelazione?
L’identità personale è un concetto complesso . Oltre ai metodi tradizionali di assessment, occorre valutarlo da un punto di vista soggettivo per determinare le interrelazioni tra cambiamenti biologici, fattori di personalità, aspetti psicologici. Infatti, il grado di compromissione presenta un’ampia variabilità individuale, indipendente dalla severità della malattia .
Le difficoltà nella comunicazione si fanno più evidenti con il progredire della malattia: la persona è sempre più incapace di esprimere i propri bisogni, presenta disturbi del linguaggio, deficit sensoriali.
Considerando i diversi canali comunicativi, è noto che la parte verbale è quella meno rappresentata nella comunicazione, che vede invece la preponderanza della componente legata al corpo e ai toni di voce. Le due forme linguistiche: verbale e corporea, sono inscindibilmente legate tra loro. Può capitare che la concomitanza dei due linguaggi non coincida con un rapporto armonico, anzi a volte che l’uno smentisca l’altro.
Una strategia importante per essere efficaci nella comunicazione consiste nel rendere congruenti i diversi livelli comunicativi. E ciò è fondamentale per creare e mantenere relazioni interprofessionali vere di accettazione e di rispetto reciproco ed è anche lo strumento principale per sostenere nel corso del tempo la persona con difficoltà cognitive.
L’assenza di relazioni verbali non pregiudica necessariamente la qualità dell’accompagnamento.
Va tenuto presente infatti quello che viene definito “deterioramento reversibile”: espressione che indica la percentuale di disabilità non correlata direttamente al danno neurofunzionale, ma piuttosto all’interazione tra paziente e ambiente.
Se ad oggi non è ancora possibile influire radicalmente sul danno neurologico, è possibile però modificare il contesto relazionale in modo da ridurre la sofferenza della persona malata e, in parte, anche il peggioramento dei deficit funzionali.
Il miglioramento dell’ambiente di vita, inteso soprattutto come “clima” relazionale - sebbene non incida probabilmente sulla durata biologica della malattia - certamente prolunga e migliora la qualità di vita dei pazienti e delle famiglie. Va considerato quindi come uno dei pochi risultati realmente terapeutici ottenibili ad oggi.
Risalgono ai primi anni ’90, le ricerche condotte da Tom Kitwood , psicogerontologo inglese, considerato fra i primi ad avere affrontato il tema della demenza partendo non dalla patologia degenerativa, ma dalla persona. Con il termine di “psicologia sociale maligna” ha descritto i diversi tipi di interazioni svalutanti e stigmatizzanti nelle relazioni assistenziali, che possono minare gli aspetti psicologici, o addirittura l'identitá profonda delle persone. Queste interazioni, anche spesso non intenzionali, sono però assai comuni, nonostante i danni profondi che esercitano nel contesto di cura. Assumono maggior rilievo con le persone che hanno difficoltá a seguire i contenuti verbali: l’elaborazione di tali messaggi a livelli non-verbali, ne condiziona notevolmente la qualità di vita a motivo della negativitá dell'atmosfera che le circonda. L’influenza delle relazioni sulla personalità è stata studiata successivamente anche da altri esperti. In particolare, si è evidenziato che anche nelle persone con demenza in fase avanzata, esistono episodi che rivelano consapevolezza di sé, soprattutto in presenza di relazioni «coinvolgenti» con i familiari e gli operatori professionali . Viceversa, relazioni centrate sul compito (task), con difficoltà nel rapporto di cura, aumentano i disturbi psico-comportamentali, disturbi che si presentano nell’80-90% dei pazienti con demenza. Questi sintomi non cognitivi sono di vario tipo: allucinazioni, agitazione psicomotoria, aggressività verbale e fisica, alterazioni del ritmo sonno-veglia, ecc.: possono rappresentare la manifestazione “non verbale” di un disagio sottostante.
Va ricordato che la personalità non è influenzata solo in senso unidirezionale. Le stesse persone con demenza sono agenti attivi nel processo assistenziale, conquistando una certo grado di consapevolezza e permettendo quindi di realizzare una reciprocità.
La persona con limitate capacità cognitive può ancora essere in grado di esprimere scelte e preferenze coerenti con i suoi valori di riferimento. Va considerato che i bisogni terapeutici e relazionali sono espressi anche attraverso gesti, postura, mimica facciale, volume e tono della voce, disturbi del comportamento: per comprenderli, si richiede al caregiver la capacità di adeguare la comunicazione al livello funzionale della persona che assiste.
Quando diventa difficile una relazione verbale ed emotiva, può essere il corpo una modalità di comunicazione?
Le relazioni di cura sono intrise di corporeità e occorre perciò porre un’attenzione particolare alle espressioni del corpo.
Se in una persona affetta da demenza le capacità cognitive sono perdute, non significa che siano perdute anche le conoscenze corporee sviluppate nel corso della vita.
Il passato parla nel volto, nel gesto, nel modo di sedere, mangiare, nell’andatura, nella parola, nella voce. Anche il corpo vive di ricordi. A testimoniarlo sono soprattutto le abitudini, che non sono altro che forme di conservazione del passato.
Per mezzo delle comunicazioni corporee esiste allora la possibilità di conoscere e interpretare le preferenze della persona con demenza in fase avanzata. Del resto, le terapie non farmacologiche sono generalmente basate su queste convinzioni .

Personalità come “status” sociale
Per evitare un clima negativo dell’ambiente di cura è importante considerare la personalità non correlata esclusivamente alla funzione cognitiva, ma piuttosto come “status” conferito ad un essere umano da parte di altri nel contesto di determinate relazioni e regole sociali: richiede perciò riconoscimento, rispetto e fiducia. Si potrebbe definire la personalità come «socialmente costruita nelle interazioni con l’ambiente».
Occorre però spostare lo sguardo dal deficit alla persona, quale presupposto indispensabile per una cura realmente centrata sulla persona, anziché sulla malattia. Non guardare alla demenza, ma alla persona che ha una demenza, ciascuna diversa dall’altra per quanto riguarda l’evoluzione della malattia, i sintomi, i comportamenti, la propria storia autobiografica.
E’ necessario quindi acquisire una strategia educativa che promuova l'apprendimento e lo sviluppo di competenze comunicative sia nei caregiver formali che informali di persone con demenza .
Uno studio basato su un training di apprendimento di strategie specifiche di abilità comunicative ha evidenziato i seguenti risultati: non solo un miglioramento della qualità di vita e del benessere dei pazienti, conseguenti ad un aumento delle interazioni positive, ma anche un impatto positivo sugli stessi caregiver .

Aspetti spirituali e demenza
In tempi recenti nell’ambito della medicina si constata un crescente interesse nei confronti della spiritualità. In un articolo pubblicato su Lancet ancora nel 1997, si afferma che la “spiritualità è il fattore dimenticato in medicina e si auspica che venga inserita nel curriculum degli studi di medicina” .
Attualmente si riconosce l’attenzione alla dimensione spirituale come parte integrante di un’elevata qualità dell’assistenza , tanto che si è proposto di considerare la spiritualità come uno dei “segni vitali” del paziente, che deve essere costantemente valutato e curato .
Se l’identità personale comprende aspetti emotivi, comportamentali, cognitivi, valoriali, in questi sono contenuti anche quelli spirituali.
Quale rapporto si potrebbe ipotizzare fra perdita dell’identità, spiritualità e demenza? L’identità spirituale può essere minacciata dal processo dementigeno? Si è osservato che, mentre le capacità cognitive declinano, la possibilità di provare sentimenti ed emozioni permane .
Ad esempio, per quanti nella loro vita precedente frequentavano la chiesa, offrire la possibilità di una partecipazione ai riti religiosi può costituire una terapia della reminiscenza, un approccio multisensoriale, e favorire nella persona un senso di appartenenza. Si può quindi affermare che spiritualità e religione sono categorie che non si spengono, ma meritano di essere coltivate nel rispetto della persona. Il bilancio dei bisogni spirituali non dovrebbe perciò essere considerato un optional, ma una strategia importante in un piano globale di cura.

Conclusioni
La personalità è il prodotto delle relazioni con gli altri e può essere migliorata o peggiorata in base a come viene valorizzata o depersonalizzata . Cercare di comprendere la complessità e la qualità di queste relazioni aggiunge ulteriori intuizioni sul vissuto delle persone affette da demenza.
La patologia non può distruggere – può forse opacizzare – le componenti psicologiche e spirituali che caratterizzano la persona umana.
Le persone con demenza pensano, comunicano, ricordano, comprendono ed esprimono sentimenti e consapevolezza di sé, trasmettono un’interpretazione della vita, di una storia narrativa personale .
Per questo si richiede il rispetto delle sue esperienze soggettive, delle sue percezioni e del suo mondo interiore.
Riuscendo a garantire una libertà di espressione verbale e non verbale, un riconoscimento dei desideri, una riappropriazione anche se transitoria e illusoria di esperienze significative del passato, si scopre come è importante rispettare e favorire la continuità dell’identità di ogni persona .

Flavia Caretta

 

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