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Il principio del rispetto della persona umana nei trattamenti sanitari: etica della libertà e etica della fedeltàLa relazione tra medico e paziente è stata sottoposta negli ultimi decenni a una forte tensione non priva di ambiguità come spesso è avvenuto in generale nella modernità e ancora avviene nel tempo contemporaneo.Già nel titolo di questa relazione emerge la polarità tra due etiche, potenzialmente, sebbene non necessariamente, in conflitto. Se si pensa all'etica della libertà nei termini dell'anarco-capitalismo come fece l'autore che sembra essere stato il primo a utilizzare questa espressione, la libertà viene intesa in senso individualistico ed arbitrario (non in senso kantiano), e conseguentemente il rapporto tra medico e paziente risulta consegnato alla casualità dell'incontro fra due arbitri.

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Se si pensa a un'etica della fedeltà intesa in modo rigido come declinazione di un'idea gerarchica o comunque tale da implicare dei doveri di obbedienza rigidamente intesi, ancora una volta il rapporto finisce per risultare impoverito. In entrambi i casi la relazione medico-paziente non è tanto l'incontro tra due persone che si rispettano, ma – se vogliamo – l'incontro casuale di due indifferenti.

 

È necessario pertanto trovare una conciliazione benefica tra questi due punti di vista, in modo da integrarli e permettere loro di dare linfa a un rapporto tra persone – quello fra medico e paziente – il più possibile ricco di umanità (senza retorica).
L'art. 32, co. 2, della Costituzione italiana fornisce uno spunto molto interessante in questa direzione. Esso infatti – occupandosi di trattamenti sanitari e in particolare di trattamenti sanitari obbligatori – prevede che in ogni caso essi non devono violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. È un principio che non sembra avere ancora ricevuto un’adeguata e non preconcetta elaborazione dottrinale che lo affranchi dalla tendenza a interpretarlo nella prospettiva di una lettura adversarial del rapporto medico- paziente. Esso tuttavia potrebbe rivelarsi la chiave di volta su cui tenere insieme entrambe le due prospettive etiche, sia quella della libertà sia quella della fedeltà.
Come è stato detto da un filosofo, «La nozione di rispetto ammette una molteplicità di piani che, pur restando distinti, sono riconducibili a una fondamentale asimmetria: quella di un soggetto agente che si trova di fronte a un valore che eccede la semplice disponibilità del suo arbitrio. Non possiamo fare ciò che ci pare con ciò che merita rispetto».
Rispettare un genitore, un insegnante, rispettare se medesimi, rispettare il proprio e l'altrui corpo, rispettare una persona in condizioni di debolezza, uno spazio pubblico, l'ambiente naturale, gli animali sono comportamenti fondati sul riconoscimento di un valore che trascende il nostro arbitrio: un valore che costituisce quindi un limite alla nostra eventuale pretesa di totale disponibilità.
Proviamo quindi a declinare anzitutto un'etica della libertà rispettosa.
Quali sono i principali presupposti pratici e culturali del diffondersi nel Novecento di questa istanza nel rapporto medico-paziente?
Anzitutto, si segnala la crescente invasività della tecnica in ambito sanitario, come in fondo in tutta la nostra vita contemporanea. La constatazione di questo fattore suggerisce di ricostruire un equilibrio tra uomo e macchina, tra naturale e artificiale e quindi di restituire la possibilità, oltre che di fare, anche di poter non fare o smettere di fare.
L’esperienza mostra che la disponibilità di tecniche terapeutiche nuove e molteplici non offre solo vantaggi, ma può avere dei costi anche in termini di tempo, di rischi e sacrifici personali; inoltre le nuove tecniche possono talora solo prolungare una condizione di fine vita, senza offrire speranze di un miglioramento o recupero significativo. Né è da sottovalutare un diffuso consumismo medico-farmaceutico che alimenta false illusioni e fornisce surrogati di soluzione per problemi che necessitano di essere affrontati in altro modo. Sotto il profilo dell'esigenza di trovare un equilibrio nell'uso delle tecniche, l’idea di una “ecologia umana” potrebbe costituire punto di riferimento di un umanesimo comune a diversi orientamenti culturali in grado ad esempio di dirci qualcosa sia per le questioni del fine vita sia per quella frontiera, oltre le terapie (beyond the therapy), che viene chiamata potenziamento (enhancement). Né è da trascurare la tendenza dell’organizzazione dei servizi sanitari a separare la persona malata dai mondi vitali e dalle persone con cui essa svolge la propria esistenza, aggravando di solitudine la condizione di malattia. A questo riguardo l'innovazione costituita dalle c.d. terapie intensive aperte è senz'altro un passo molto importante.
In concorso con la diffusione della tecnica nella pratica medica, si aggiunge una sensibilità culturale che rifiuta di concepire l’affidamento nel medico, da parte del paziente bisognoso di cura, come una specie di abbandono o di rassegnata consegna del proprio corpo. Il merito, forse, di chi ha posto per primo tali questioni è proprio di avere portato a una riscoperta della dimensione personale del corpo e quindi della sua unità con la dimensione spirituale. L’esigenza di personalizzare le cure e di coinvolgere la volontà del malato si contrappone ad approcci che concepiscono il malato come una sorta di sostrato oggettivo dell’attività del medico, mentre un rapporto — per essere veramente tale — implica due soggetti, non un soggetto e un oggetto.
Certo, tra un soggetto professionale e un soggetto bisognoso della prestazione professionale non è facile costruire una situazione di parità. C'è anche il rischio di una retorica antipaternalistica che svaluta l'esperienza e la perizia formatesi nel tempo e una mistica ingenua della volontà individuale. In ogni caso, un tentativo per restituire soggettività al malato, concepito secondo le linee del pensiero liberale e la logica della società dei consumi, come è noto, è stata l’estensione nell’ambito sanitario della regola del consenso informato applicata originariamente in ambito sanitario soprattutto nel campo della sperimentazione clinica, dove si può parlare di trattamenti straordinari e nei quali sembra prevalere l’interesse alla sperimentazione rispetto a un interesse della persona che vi si sottopone, mentre nell’ambito della cura ordinariamente l’interesse prevalente, se non unico, è quello del paziente alla cura stessa.
La funzione del consenso informato dovrebbe essere dunque di favorire il coinvolgimento del paziente rafforzando la relazionalità dei due soggetti: si tratta appunto di con-senso alla proposta terapeutica del medico. Il rischio però è di ribaltare il rapporto piegando l’attività medica a qualunque richiesta del paziente fino a trasformare il con-senso in un mono-senso. Ciò significa che se il consenso informato è anche espressione di una libertà morale del paziente (o, forse più esattamente, espressione di una scelta personale), la relazione con il medico deve parimenti tenere conto della libertà morale di quest’ultimo. È un po’ semplicistico contrapporre una libertà di coscienza della persona alla sola autonomia professionale del medico. Sicuramente anche quest’ultima è in gioco, ma, specialmente quando sono chieste al medico delle prestazioni di cui si può dubitare o addirittura escludere che rientrino tra i fini della stessa attività medica, l’eventuale obbligo del sanitario di assecondare la richiesta del paziente interferirebbe in modo cruciale, oltre che con la sua autonomia professionale, anche con la sua libertà di coscienza.
In definitiva, non viene in rilievo una sola libertà di coscienza, ma due, quelle di entrambe le parti della relazione.
D’altronde, sembra una forzatura equiparare l’attività medica — che è finalizzata alla tutela della salute quale diritto fondamentale del singolo e interesse della collettività (art. 32, co. 1, cost.) — a un’attività illecita e così ridurre il consenso informato alla causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto. Il consenso informato, piuttosto, è divenuto una modalità necessaria con cui il medico deve svolgere il suo compito, i presupposti oggettivi del quale, a norma dell’art. 4 della Convenzione di Oviedo, sono l’appropriatezza e la conformità alla deontologia. In altre parole, l’atto medico trova la sua ragione nel bisogno di cura e la libertà di curarsi spiega l’esigenza del consenso informato, senza tuttavia banalizzare il rapporto medico-paziente nei termini di una relazione di consumo, nel cui ambito il medico offrirebbe prestazioni a richiesta, quali che esse siano. Questo modo contrattualistico di concepire la relazione non sembra corrispondere all'interesse di nessuna delle parti e tende piuttosto a veicolare una rappresentazione adversarial che genera burocratizzazione, medicina difensivistica e aumento della litigiosità, anche giudiziale.

Questi rilievi ci portano sul versante dell'etica della fedeltà che deve collaborare con l'etica della libertà sulla base del principio del rispetto.
L'etica della fedeltà arricchisce il rapporto medico-paziente di un profilo che lo trascende e che può essere individuato riflettendo sul fatto che tale rapporto non nasce puramente e semplicemente dall'incontro di due volontà o in forma puramente casuale. Esso ha per così dire una terza dimensione, in quanto deriva dalla condizione di bisogno del paziente che induce quest'ultimo a chiedere aiuto a un esperto e dallo status professionale del medico che lo candida ad essere interpellato dal paziente o, eventualmente, autorizzato dalla collettività a intervenire in soccorso di un paziente che non fosse nemmeno in grado di chiedere aiuto. Non si tratta, quindi dell'incontro tra due soggettività qualsiasi, ma tra una persona malata, e riconoscibile come tale, e un medico, cioè un soggetto qualificato da uno status professionale, ossia una qualifica riconosciuta pubblicamente. Al fondo vi è un affidamento del paziente (o della collettività nel caso degli incapaci) che si fida di un altro uomo come professionista, cioè come esperto riconosciuto dell'arte medica. Questa fiducia è alla base dell'autorizzazione pubblica a entrare in quella sfera di intimità fisica e spirituale della persona malata e senza la quale quel comportamento sarebbe già di per sé una violazione della persona.
La fedeltà, e l'etica che si può strutturare su di essa, perciò, si alimenta di quell'affidamento originario e nello stesso tempo rimanda a qualcosa che lo precede, ossia alle qualità professionali che rendono il medico nel suo ruolo ciò che egli è, un medico appunto. Insomma, il medico ha un ruolo, e quindi la sua attività è in un certo senso predefinita da tutto ciò in cui essa consiste in generale, ossia la perizia e l'esperienza che fanno la scienza del medico, da un lato, e, dall'altro, la sua coscienza professionale derivante dall'insieme di regole deontologiche che la comunità dei medici nel tempo si è data e si dà nel mutare delle condizioni storiche in cui la medicina si svolge. Sotto questo profilo, ciascun medico, nel suo operare, è anche responsabile come membro di una comunità professionale (i medici) di cui fa parte e che in qualche modo egli rappresenta (rende presente) quotidianamente nei suoi atti. In questo senso, si può parlare di una fedeltà del medico al proprio ruolo e insieme agli altri medici.
Poiché però questa fedeltà è giocata nella relazione con una persona in carne ed ossa, il malato, dev'essere pensata non come una automatica e formalistica applicazione di principi, regole, standards o protocolli. Essa deve piuttosto essere pensata come fedeltà creativa: è una fedeltà che si deve svolgere nel vissuto presente e concreto del rapporto con una persona particolare che il medico deve rispettare. La personalizzazione delle cure mediche si gioca propriamente all'interno di questo quadro di riferimento.
In tal modo, etica della libertà ed etica della fedeltà si incontrano nella relazione medico – paziente sulla base del principio del rispetto della persona umana. Ogni soggetto della relazione agisce non in modo autoreferenziale, ma nella consapevolezza di un limite che dev'essere rispettato e che va riconosciuto nella situazione concreta. Questo limite però non è un dato puramente negativo, ma è il frutto della solidarietà che lega ciascuno di noi agli altri esseri umani sia individualmente sia più in generale in quella che chiamiamo famiglia umana.
Per restare alla costituzione italiana, la salute viene concepita come diritto individuale del singolo ma anche come interesse (inter-esse) della collettività. La persona che soffre non è vista alla stregua di un soggetto isolato in una società indifferente, ma la cura della sua salute viene ritenuta riguardare tutti. Il principio di solidarietà, in definitiva, avvolge il diritto individuale accompagnando la persona che soffre per portarla al centro dell'interesse della collettività. Non sembra inutile sottolineare che l'art. 32 è collocato tra le norme raccolte sotto il titolo Rapporti etico-sociali, le prime delle quali sono dedicate alla famiglia.

 

Andrea Nicolussi