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Introduzione

Il volume è il risultato di una corale riflessione, fondamentalmente, sulla professionalità medica, una riflessione corale importante perché nasce dagli stessi “addetti ai lavori”,  anzi, da “qualificati addetti ai lavori”.

Vediamo allora, sommariamente, in quale contesto culturale si pone.

Un contesto assistenziale che per descrivere ricorrerò alla rivisitazione della parabola del Buon Samaritano, ispirandomi liberamente ad un commento fatto dal prof. Spinsanti, circa venti anni fa.“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico… era giunto in ospedale, in situazione grave, le conseguenze dell’aggressione avevano peggiorato le condizioni di una sua precedente patologia. Passò vicino a lui un medico, vide il “bel caso clinico”, da cui si poteva imparare molto, un contributo notevole al progresso della scienza. Mise a punto un accurato programma di ricerca e non trascurò nessun dettaglio della malattia, come risulta dall’articolo pubblicato nella rivista scientifica della sua specialità. E passò oltre, tranquillo in coscienza.

 

Il malato, fu preso poi in cura da una èquipe medica efficientissima: fecero di tutto – col bisturi, le radiazioni, i farmaci – riuscendo a farlo vivere un paio di mesi oltre la media statistica di quei casi. E’ vero, non parlarono mai al malato della prognosi e delle strategie terapeutiche a cui lo sottoponevano, ma fecero veramente “tutto il possibile”: lo dissero anche ai parenti, quando li incrociarono fuggevolmente in corridoio, dopo che il malato era diventato improvvisamente un morto, senza essere mai stato riconosciuto come morente. E passarono oltre, tranquilli in coscienza”.

Questa iconografia vuol costituire solo un espediente letterario, non vuol dire che è sempre così, non sono corrette le generalizzazioni.

Molto più normale è la constatazione che nel momento in cui la medicina sembra aver raggiunto il massimo potenziale diagnostico e terapeutico della sua storia, nell’ambito assistenziale, sembra aver accentrato la sua attenzione peculiare sulla patologia piuttosto che sulla persona che ne è affetta, così che comunemente si parla della necessità di una umanizzazione della medicina. E’ un primo paradosso: la scienza medica è per sua natura umana, se non è umana non si vede cosa possa essere.

Un ulteriore paradosso è constatabile nelle modalità di discussione sull’assistenza nella fase terminale della malattia, particolari aspetti terapeutici visti però nella prospettiva del diritto e dell’etica. Anche qui si può leggere un altro paradosso: alle discussioni – peraltro limitate all’aspetto etico per migliorare le condizioni di vita nelle fasi ultime, non corrispondono ulteriori discussioni sulla situazione di quella persona che si definisce paziente, e che non è sempre obbligatorio, che diventi un morente.

Un paziente che non è sempre da idealizzare. Nelle società dominate dal mercato, costituito dalla soddisfazione dei desideri individuali, si tende a far sì che la medicina corra il rischio di non essere semplicemente un mezzo di confronto con la malattia e la salute, come nelle concezioni tradizionali, ma anche di diventare un insieme di atti e tecniche neutrali, da usarsi come la persona ritiene più conveniente, soggetti solo a limiti economici.

Ma anche per il medico la situazione, dal punto di vista umano, può presentare delle difficoltà. Una puntualizzazione: particolarmente chi lavora in ambito assistenziale è quotidianamente assediato da situazioni di sofferenza, dalle quali - se il paziente ha la speranza di uscirne - per gli operatori sanitari è lo sfondo di tutta la vita lavorativa. Al necessario benessere psicologico e spirituale basterà esercitare la professione nella sola prospettiva della Evidence Based Medicine, cioè della medicina basata sulle evidenze, con certezze scientifiche, e quindi codificate secondo precisi schematismi? E’ una esegesi forzata ma può servire a descrivere una pratica professionale.


In questo ambito sono ancora da ricordare i vantaggi scientifici e terapeutici delle specializzazioni mediche ed i loro possibili svantaggi per la persona del paziente. Negli ultimi decenni poi, con i progressi tecnologici, con il crescente aumento dei costi assistenziali, con la crescente domanda di accesso alle cure mediche, i concetti più frequentemente citati sono diventati l’efficienza gestionale e il contenimento dei costi. Anche questi elementi economici, peraltro necessari per la naturale limitatezza delle risorse, hanno contribuito a determinare una medicina sempre più tecnologica e hanno teso a discussioni economiche non più accentrate sulla medicina come scienza umana.

Con tutti i limiti di una presentazione sommaria, questa presentazione vuol invitare a pensare che la umanizzazione della medicina, lo si è detto, espressione che è una contraddizione nei termini, sia un elemento che interessa sia il medico che il paziente. Ed è questo che sostengono le interviste riportate nel volume in presentazione. Una riflessione corale che se ha indubbie connotazioni etiche, spirituali, religiose solleva anche il problema di una migliore professionalità ed efficacia terapeutica. Una riflessione corale che sottolinea l’importanza di una consapevole relazionalità tra esseri umani, quali il medico e il paziente. Una relazionalità che possiamo iconograficamente rappresentare come due viandanti che si incontrano e si accompagnano nel percorso della vita, ne fanno un tratto insieme, possono aiutarsi reciprocamente.

Una affermazione, contenuta nel volume, è quella che le interazioni medico-paziente costituiscono un fenomeno sociale complesso di cui entrambi i partecipanti intervengono con aspettative reciproche. Naturalmente gli scambi di informazioni sono influenzati sia da una serie di variabili dipendenti dalle caratteristiche personali del medico e del paziente, sia dalle circostanze specifiche in cui si svolge l’interazione. In particolare le modalità con cui vengono trasmesse le informazioni al paziente, la quantità di tempo dedicata alle spiegazioni da fornire, la chiarezza espositiva, la semplicità lessicale sono fattori che incidono sia in merito alla comprensione delle  condizioni di salute/malattia, sia alla partecipazione, più o meno attiva, alle procedure terapeutiche. Di questo rapporto si possono sottolineare anche gli aspetti utilitaristici. Il primo è che se il malato è ascoltato attentamente, può essere un prezioso alleato del medico nell’aiutarlo a capire le sue problematiche e curarlo meglio. E così con i suoi familiari che ben lo conoscono e sanno rilevare anche minimi cambiamenti o delle sue abitudini o delle sue condizioni mentali o di umore. Così che la una corretta comunicazione tra il medico e il paziente e i suoi familiari costituisce uno dei sistemi più efficaci di controllo dell’errore. Si sbaglia meno se si ascolta il paziente.

Naturalmente non è esprimibile sono in termini utilitaristici, la corretta relazionalità medico-paziente influenza lo stato psicologico e spirituale del paziente, la sua soglia del dolore,  lo stato psicologico e spirituale dei familiari, la compliance alla terapia. Siamo nelle dimensioni dell’accoglienza, della rassicurazione e, di conseguenza, nella condivisione, nell’aiuto alla guarigione, intesa in un senso più ampio.

Infatti l’obiettivo della guarigione fisica del paziente non può essere l’unica finalità dell’attività professionale, poiché questa spesso non è raggiungibile, è necessario richiamare un più realistico concetto di guarigione che dia sempre la possibilità di avere un obiettivo terapeutico. Obiettivo forse possibile, se intendiamo la guarigione come la capacità della persona di non farsi schiacciare dalla situazione di vita, così che abbia il coraggio, la fede, la forza di rimanere “padrone” della sua situazione di vita e di saperla gestire, per quanto umanamente possibile.

Ma è una relazionalità che il medico deve imparare da solo, nessuno la insegna nel corso degli studi, forse è il risultato inconscio degli esempi visti nella prima pratica di reparto, è affidata alla personalità del singolo medico, è affidata alla carità del singolo medico; una carità qui intesa come il rispetto dell’altro, che è il cardine dell’amore del prossimo.

Una prima conseguenza allora, peraltro sottolineata negli interventi del volume, di una carenza formativa: nella preparazione medica, come peraltro in tutte le helping professions, alla acquisizione delle nozioni tecniche dovrebbe accompagnarsi lo sviluppo umano – psicologico e spirituale - dello studente.


Ma la relazionalità non si esaurisce nel rapporto con la persona del paziente, ci sono anche le persone dei colleghi e degli altri operatori sanitari. Si è stigmatizzato come sino ad oggi uno studente di medicina per tutti gli anni del corso di laurea e di specializzazione, raramente o mai, sente parlare della necessità di interventi di équipe multisciplinari, ove accanto a varie figure mediche operano anche operatori con competenze e professionalità diverse. Insegnare questi principi e queste strategie: ecco un modo efficace di cercare di realizzare i principi di una antica, ma sempre attuale, solidarietà.

La relazione di aiuto che permea le professioni di cura è fonte di sentimenti e di emozioni per entrambi i soggetti che ne sono coinvolti. La richiesta di sostegno e di protezione dell’uno è invito all’altro ad uscire da sé, dai propri perimetri conosciuti per andare oltre il limite, che non è l’onnipotenza, ma apertura all’incontro.

L’essere umano inizia a diventare persona proprio nel momento in cui si identifica nei bisogni dell’altro, vi si immedesima, e questo anche e soprattutto quando l’altro è vulnerabile, indifeso, quando l’incontro con l’altro è nel suo grado estremo – assunzione completa dell’altro come responsabilità. Un altro che abita un mondo nuovo poiché il suo mondo precedente è stato messo in scacco dall’evento patologico.

Il momento del dolore è un momento di straordinaria verità che costringe chiunque a porsi quesiti ineludibili nei confronti del senso della propria vita. Se si vuole incontrare il dolore degli altri si deve anzitutto riconciliarsi con il dolore che è dentro di noi. Per poter curare, nel senso più ampio del termine, si deve prendere atto del proprio bisogno di essere curati.

Si afferma nel volume che il senso del dono di sé o degli altri, da offrire o da ricevere, può prorompere in ogni momento e in ogni animo ogniqualvolta si dà la possibilità di ascoltare gli altri, di aprirsi al mondo, quando si guardano gli altri come fratelli. E’ una apertura che ha qualche cosa di divino, che fa pensare alle parole “a Sua immagine e somiglianza “, ma anche, laicamente, che “nati non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza”.

Sapere, saper fare, saper essere sono le richieste impegnative della vita, ma anche il manifesto programmatico di una professione dedicata alla cura dei malati.

In conclusione, questa presentazione non può che invitare alla lettura del volume, o forse alla sua meditazione, tenuto conto dei molteplici e importanti contributi che rispecchiano esperienze di vita e di professione, e dei quali una presentazione non può che essere un sommario resoconto.

Massimo Petrini