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Plausibilità scientifica della fraternitàNello scenario attuale della medicina predomina il rapido sviluppo della tecnologia, l’affermarsi di una medicina basata sull’evidenza, che pone l’attenzione su prove di efficacia, su trial clinici randomizzati condotti su grandi casistiche di pazienti, sul contenimento dei costi.È pensabile che vi sia posto per la dimensione della fraternità?Si potrebbero ipotizzare evidenze scientifiche per questa categoria applicata alla medicina?Forse la risposta dipende dalla chiave di lettura o meglio dal focus d’interesse rispetto agli innumerevoli studi che vengono continuamente pubblicati.

Soprattutto negli ultimi anni si sta ponendo l’attenzione anche su aspetti non strettamente tecnici, come ad esempio la relazione e la comunicazione con il paziente, la risposta soggettiva alle terapie rispetto alla casistica anonima, la dimensione spirituale, il “clima terapeutico” all’interno dell’équipe di cura, gli stili di vita, il ruolo che rivestono la comunità  e la società per la salute, ecc.

Quindi, anche i valori connessi alla fraternità affiorano qua e là a dimostrare che questa categoria non è estranea neppure a quella che si potrebbe definire la dura sperimentazione scientifica.

Infatti, se si prende in esame l’aspetto biologico, si pone oggi l’attenzione su nuovi modelli di intelligenza, tra cui quella denominata[1] “intelligenza emotivo-sociale”. Finora si considerava solo l’intelligenza logico-matematica, rappresentata dal Q.I. tradizionale, ritenendola un dato genetico e perciò immodificabile dall’esperienza. Ora si sta dimostrando invece come le capacità dell’intelligenza sociale siano influenzate fortemente dalle relazioni interpersonali e possano essere apprese e potenziate nel corso della vita. Tra queste abilità sono comprese innanzitutto l’empatia (ossia la capacità di riconoscere emozioni e sentimenti negli altri, riuscendo a comprenderne punti di vista, interessi e difficoltà interiori), ma anche la conoscenza di sé, l’attenzione (intesa come la capacità che consente l’ascolto attivo e permette il dialogo), l’autocontrollo delle situazioni, la sollecitudine verso gli altri, ecc. Le tecniche di neuroimmagine funzionali del cervello stanno evidenziando una sorta di mappa del nostro “cervello sociale”, cioè le reti di neuroni che si attivano e cooperano durante l’interazione tra persone. Si è visto che si crea in ogni interazione un legame funzionale, una sorta di adattamento reciproco tra i  cervelli che si connettono e che si influenzano a vicenda.

Si è constatato inoltre che le emozioni sono contagiose, che i sentimenti positivi si diffondono più velocemente di quelli negativi e che i loro effetti aumentano la lealtà e la cooperazione tra gli individui.

Il principio di reciprocità, trattare l’altro come vorremmo essere trattati noi stessi, ha perciò anche un fondamento scientifico nei processi neurofisiologici. Questa sincronia interdipendente di sentimenti, pensieri e azioni, che caratterizzano i rapporti fra le persone sembra opera di una classe specifica di neuroni, i “neuroni specchio”[2] [3], che si attivano selettivamente, sia quando si compie un'azione, sia quando la si osserva mentre è compiuta da altri. I neuroni dell'osservatore "rispecchiano" quindi ciò che avviene nella mente del soggetto osservato, come se fosse l'osservatore stesso a compiere l'azione.

Questo contributo delle neuroscienze ha messo in luce come la reciprocità che ci lega all’altro sia una nostra condizione naturale, pre-verbale e pre-relazionale. L’essere umano ha per sua natura bisogno di interagire e relazionarsi con i propri simili [4].

Un esempio evidente del ruolo dei “neuroni specchio” nella prospettiva della solidarietà è dato dagli studi sul dolore. Di fronte ad una persona che soffre, si attivano in noi le stesse aree cerebrali del dolore provato da lei. In pratica il dolore dell’altro viene “rispecchiato” dalle stesse aree del nostro cervello[5]. Quindi, la condivisione del dolore non ha solo una motivazione compassionevole, ma ha una radice biologica. Inoltre, si è visto che lo stare accanto, la nostra presenza, può addirittura ridurre grandemente la percezione del dolore in chi soffre, alzando la soglia del dolore stesso, entrando perciò a buon diritto e con le carte in regola, come “presidio scientifico”, nella terapia del dolore [6].

L’aspetto della relazione interpersonale influenza anche altri sistemi dell’organismo. Ad esempio contatti sociali significativi accentuano gli stati d’animo positivi e migliorano la funzionalità del sistema endocrino e immunitario.

Il sostegno emotivo (calore, vicinanza emotiva, presenza fisica, partecipazione affettuosa, qualità delle interazioni) diminuisce lo stress biologico, inducendo un abbassamento della pressione sanguigna e del battito cardiaco, dei livelli di colesterolo e di noradrenalina. Al contrario, più ci si sente soli, più risultano deboli le funzioni immunitaria e cardiovascolare [7].

Una ricerca condotta negli Stati Uniti aveva come scopo lo studio degli effetti della componente affettiva sul decorso dell’infarto acuto del miocardio. Indipendentemente dall’età, dalla gravità dell’infarto, dall’associazione con altre malattie, una vita in solitudine era associata con un aumento di quasi tre volte della mortalità nei primi 6 mesi dopo l’infarto [8].

Ma anche nelle unità di cura intensiva, la presenza dei familiari fa bene al cuore dei pazienti. E’ stato dimostrato da uno studio condotto a Firenze presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Careggi e pubblicato sulla prestigiosa rivista cardiologica statunitense Circulation [9].

Nel periodo in cui è stata consentita una maggiore presenza dei familiari, i pazienti hanno manifestato una diminuzione dell’ansia ed un minore aumento degli ormoni circolanti che vengono prodotti dall’organismo in risposta a stress acuti. Ma il risultato più sorprendente e di maggiore impatto clinico è stato rappresentato da una riduzione di oltre due volte del rischio di tutte le maggiori complicazioni cardiovascolari. 

Affiancandosi alle terapie mediche, la vicinanza affettiva, la condivisione, non sono perciò soltanto un modo per migliorare la qualità di vita del paziente, ma sono alleati biologicamente attivi del trattamento.  Una fondamentale risorsa terapeutica è quindi la rete di persone attorno al paziente!

Ancora, studi sulle conseguenze fisiologiche della violenza e dell’ostilità fra gruppi etnici hanno evidenziato che il solo pensare al nemico induce reazioni fisiche, con aumento degli ormoni dello stress, della pressione sanguigna e diminuzione delle difese immunitarie. Il perdono al contrario agisce come un antidoto, invertendo la reazione biologica.

Ad esempio, una ricerca[10] su persone nordirlandesi, cattoliche e protestanti, che avevano perso un familiare nella lotta tra le fazioni, ha dimostrato che quanti riuscivano a perdonare non solo si sentivano emotivamente meno feriti, ma presentavano anche una diminuzione dei sintomi del trauma, come inappetenza e insonnia.

Finora si è considerato soprattutto l’aspetto biologico rispetto alle ricadute sulla reciprocità. Se ora si pone l’attenzione su quello che è stato definito il nucleo storico della medicina, cioè il rapporto medico-paziente, operatore-paziente, si possono individuare anche in questo ambito evidenze scientifiche sull’influenza tra relazionalità e salute.

Molti studi documentano i vantaggi in termini di risultati terapeutici che derivano da una modalità empatica di relazione. Sia la qualità della comunicazione, sia la condivisione  del piano di gestione della malattia risultano influire sulla salute del paziente in termini di stato emozionale, aderenza alla terapia, risoluzione dei sintomi, funzionalità, controllo del dolore, misure fisiologiche come pressione arteriosa e glicemia [11],[12] . Un risultato importante consiste inoltre nel ridurre l’incidenza di citazioni in giudizio per colpa professionale [13]. Nella medicina odierna però non va considerato soltanto il rapporto medico-paziente: la tecnologia, l’aumento delle specializzazioni e delle diverse professionalità sanitarie hanno comportato la necessità di una stretta sinergia tra i diversi operatori coinvolti nell’assistenza.

Anche per questo aspetto, le ricerche sottolineano l’importanza della qualità delle relazioni tra gli operatori.

Si è cercato di evidenziare eventuali differenze tra ambienti sanitari in cui si lavorava perseguendo attivamente un lavoro di équipe rispetto ad altri in cui non esisteva questo obiettivo. Ne è risultato che nel primo caso gli operatori avvertono una maggior soddisfazione professionale dovuta alla collaborazione, alla partecipazione, alla coesione percepite, e diminuisce il turnover degli operatori stessi.

Ma si ottengono risultati significativi anche per la salute dei pazienti, nel miglioramento degli esiti funzionali e nella riduzione della durata della degenza [14], [15].

La medicina ha anche una importante dimensione sociale: mirando a migliorare lo stato di salute della popolazione, specialmente delle classi e dei popoli più svantaggiati, offre un contributo di rilievo al progresso ed al mantenimento della pace sociale ed internazionale [16],[17] .

A sua volta la medicina è profondamente influenzata dai costumi, dai valori, dall’economia e dalla politica delle società di cui fa parte. Il benessere sanitario dipende anche, se non soprattutto, da determinanti che di regola sono ritenuti estranei o poco influenti: la cultura, la condizione socioeconomica (che a sua volta influenza i comportamenti e gli stili di vita) e l’ambiente, inteso come ecosistema.

Che ci sia un legame diretto fra reddito e salute, chiamato gradiente sociale, era già stato evidenziato in passato, soprattutto mettendo in evidenza le ingiustizie e le disuguaglianze drammatiche in termini di cause evitabili di malattia, tra Paesi in via di sviluppo e Paesi più ricchi. Ma ciò che sta emergendo, anche nei sistemi sanitari dei paesi occidentali, è che esistono “gradienti di salute” anche all’interno della stessa nazione [18].

Ne deriva che le possibili soluzioni si devono ricercare in misure tese a ridurre il divario e promuovere solidarietà, tra ricchi e poveri, ma anche tra generazioni, ecc.

Del resto alcuni anni fa già alcuni politici norvegesi, ponendosi il problema di come organizzare il loro sistema sanitario in maniera più equa [19],  avevano scelto di assumere il valore della fraternità come linea-guida per una riorganizzazione dei servizi di salute. Fino ad ora questo risulta l’unico studio recensito nella letteratura medica internazionale in cui si usa il termine fraternità in medicina.

L’inequità sociale è non solo negazione del valore universale dell’uomo, ma anche causa rilevante - a monte ed indipendentemente dalle specifiche eziologie - delle più importanti forme morbose oggi esistenti [20]. Di conseguenza, l’eliminazione delle inequità sociali non potrà che portare ad un miglioramento della salute della popolazione e, quindi, anche ad una riduzione della spesa sanitaria.

In conclusione,  promuovere la fraternità come valore fondante della medicina risulta essere un paradigma culturale privilegiato, una strategia vincente per affrontare le attuali sfide della globalizzazione anche nel campo della salute.

Se la fraternità diventa un valore condiviso e perseguito da tutti e a tutti i livelli – dalla ricerca, ai rapporti interpersonali, a quelli tra servizi, all’organizzazione sanitaria, al sistema politico - quali effetti si possono attendere?

Flavia Caretta

 


[1] Cfr. Goleman D., Intelligenza sociale,– trad. it. di Valeria Pazzi dell’originale “Social intelligence. The new science of human relationships”, Rizzoli Editore, Milano 2006

[2] Rizzolatti G., Sinigaglia C., (2006), So quel che fa.i Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore.

[3] Iacoboni Marco, (2008), I neuroni specchio, Bollati Boringhieri.

[4] Gallese V., Neuroscienze e fenomenologia, Enciclopedia Treccani, Terzo Millennio, in press

[5] Alberto Oliviero, Cervello, Etica e Altruismo, Abstracts Convegno Internazionale nella Storia Evolutiva dell’Uomo, Istituto Italiano di Antropologia e Università di Roma “La Sapienza”, Roma, 8 maggio 2007

[6] Tiengo M., Dolore e natura in La relazione: l’essenza dell’arte medica. Associazione Medicina Dialogo Comunione, Roma 2007, pp. 169-171

[7] Sheldon Cohen, Social Relationship and Health, American Psycologist, november 2004, pp 676-684.

[8] Berkman L.F., LeoSummers L., Horwitz R.I., Emotional support and survival after myocardial infarction. A prospective, population-based study of the elderly in “Annals of Internal Medicine” 117(1992), p. 1003

[9] Fumagalli S, Boncinelli L, Lo Nostro A, Valoti P, Baldereschi G, Di Bari M, Ungar A, Baldasseroni S, Geppetti P, Masotti G, Pini R, Marchionni N. Reduced cardiocirculatory complications with unrestrictive visiting policy in an intensive care unit: results from a pilot, randomized trial. Circulation. 2006 Feb 21;113(7):946-52.

[10] Fred Luskin, Forgive for Good, Harper SanFrancisco, San Francisco, 2001

[11] Stewart MA. Effective physician-patient communication and health outcomes: a review. CMAJ 1995; 152: 1423-1433.

[12] Debra Roter, Patient-centered communication, British Medical Journal, 328 (2004), pp.303-304

[13] Levinson W., Roter D.L., Mullouly J.P. et al. Physician-patient communication: The relationship with malpractice claims among primary care physicians and surgeons. JAMA 1997;277:553-59

[14] Lemieux C., Mc Guire W.L., What do we know about health care team effectiveness? A review of the literature, Med Care Res Rev 2006;63(3): 263-300

[15]  Gelb Safran D., Miller W., Beckman H., Organizational dimensions of relationship-centered care. J General Internal Medicine 2006;21:1525- 1497

[16] Horton R. The occupied Palestinian territory: peace, justice, and health. Lancet 2009; 373: 784-788

[17] McKee M et al. Health systems, health, and wealth: a European perspective. Lancet 2009; 373: 349–51

[18] World Health Organization, Commission on Social Determinants of Health. Closing the gap in a generation. Health equity through action on the social determinants of health. WHO 2008. de Gaudemaris R et al. Socioeconomic inequalities in hypertension prevalence and care : the IHPAF study. Hypertension 2002; 39: 1119-1125.  Diez Roux AV. el al. Neighborhood characteristics and components of the insulin resistance syndrome in young adults. The Coronary Artery Risk Development in Young Adults (CARDIA) Study. Diabetes Care 2002; 25: 1976-1982.

(f) Mayer O. et al. Educational level and risk profile il the EUROASPIRE II substudy. J Epidemiol Community Health 2004; 58: 47-52.

[19] Westin S., Equality and brotherhood - values worth preserving in the health services. Tidsskr Nor Laegeforen. 1999 Apr 20;119(10):1474-9

[20] Carbonin P.U.,  La plausibilità biologica della solidarietà in “Anziani Oggi” 4(1997), pp. 2-9

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