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comunione medico_pazienteCome primario patologo dell’Ospedale dei bambini di Milano ho istituito, con atto formale, nel 1960, il “Centro di eubiotica umana”, per realizzare, nell’ambito della nostra medicina tecnologica, una medicina detta naturale, quindi rispettosa delle leggi naturali, considerando l’uomo un ecosistema, fatto di corpo, psiche e spirito. Ipotizzando, di conseguenza, una patologia e una cura ai 3 livelli.

Non intendo certo, in questa sede, esporre i fondamenti di questa medicina naturale, rimandando a quanto pubblicato in vari trattati, come il Manuale medico di diagnostica e terapia di A. Spartaco Roversi (1977 e 1994).

Tratterò in particolare un tema sul quale mi sono da tempo impegnato e cioè l’aspetto medico della patologia che colpisce la coppia in seguito alla morte di un coniuge. È certo che il trauma che colpisce il coniuge sopravvissuto dovrebbe coinvolgere anche quel medico che “fraternamente” aveva avuto cura della salute dei due componenti della coppia.

Naturalmente, qui si considera la situazione di una coppia intimamente unita da un amore fondato su una reciproca affermazione: «Non sono io che vivo, ma è lui (lei), che vive in me».

Il medico deve essere in grado di far sì che il coniuge sopravvissuto ricordi che, secondo la fede cristiana, il coniuge trapassato riposa in seno al Cristo. Se, sempre per questa fede, il sopravvissuto può in coscienza affermare con Paolo: «Non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me», è evidente che in Cristo, la coppia continua a vivere.

Attingendo quindi ai fondamenti della fede, è stato questo il messaggio che ho sempre dato al coniuge sopravvissuto per fargli superare il trauma della vedovanza, precisando che non si trattava di una concezione personale eubiotica, ma che rappresentava quanto affermato nella Gaudium et Spes (n. 48) del Concilio Vaticano II.

Il Concilio afferma che il Cristo, unendo in matrimonio i due sposi, «rimane con loro, così che i coniugi possano amarsi l’un l’altro, fedelmente, per sempre, con mutua dedizione».

Per mia esperienza, devo però precisare che tutti questi concetti, esposti da un medico, così come anche da un sacerdote, che magari aggiungerà l’evento consolatorio della resurrezione, sono solitamente recepiti dal coniuge sopravvissuto come semplici parole, valide da un punto di vista teorico-culturale, che poco aggiungono al proprio convincimento di fede.

A questo punto, la mia professionalità su questo tema è stata stravolta da un fatto nuovo, assolutamente imprevisto. Dopo 46 anni di matrimonio, sono stato colpito dal dramma della vedovanza, che mi ha assolutamente tramortito.

Per superare questo evento è stato per me “naturale” vivere, innanzitutto a livello inconscio, quanto avevo elaborato per gli altri, su un piano apparentemente soltanto teorico e razionale, in quanto espresso con parole.

E così, insensibilmente, ho di fatto realizzato un evento particolare, cioè di vivere, in un certo senso, una doppia vita. Quella normale “naturale”, con tutti i problemi di questo mondo e quella “soprannaturale”, fondata sul «per sempre» dell’intima unione d’amore di coppia, con mia moglie Franca che, attraverso il Cristo, vive in me.

A questo punto, mentre prima il mio messaggio medico rivolto al coniuge sopravvissuto, colpito dal dramma della vedovanza, veniva recepito come fatto di sole parole, ora veniva recepito come comunione fraterna.

Si capiva che mi facevo carico del dramma della vedovanza dell’altro, unendola alla mia vedovanza, nel senso che non mi calavo semplicemente nel suo dramma per viverlo insieme, ma calavo il suo dramma dentro di me, così da farlo mio.

In sostanza il traguardo del rapporto medico-paziente, è quello di poter affermare: non sono io (medico), che vivo, ma è lui (il paziente) che vive in me.

In questo caso è evidente che il discorso si allarga, in senso generale, da quello particolare, finora considerato, della vedovanza.

A questo proposito, è noto che la completa dedizione da parte del medico nei confronti del paziente, facendo propri i suoi problemi personali e i turbamenti della sua salute psicofisica, può provocare l’insorgenza di una particolare sindrome, che è stata definita “fatica da compassione”, cioè del “patire insieme”.

Questa “fatica” può avere un alto costo. Il medico può restare oppresso dai drammi dei suoi pazienti, giungendo a un vero e proprio “esaurimento”.

Se poi, invece di avere semplicemente “a cuore” i problemi del paziente, il medico li cala dentro di sé, vivendoli, può insorgere una situazione turbativa, che supera un semplice “esaurimento”, con possibili conflitti esistenziali che possono diventare un peso insopportabile.

Per non essere trascinato in questa spirale, così da poter sopportare senza danni questa situazione, la nostra medicina classica suggerirebbe il ricorso, se non a psicofarmaci, a uno psicologo, meglio a un professionista di salute mentale, per sottoporsi a dei briefing, in modo da essere consapevole della sindrome e quindi meno vulnerabile dall’“esaurimento” e dalle malattie fisiche causate dal continuo stress.

Un’alternativa al ricorso a psicofarmaci e a uno psicoterapeuta è possibile da parte di un medico che abbia un proprio convincimento di fede, così da essere in grado di evocare il Paraclito, lo Spirito Confortatore, offrendogli il proprio cuore come sua dimora.

In questo modo, la “fatica da compassione” non insorgerà, il proprio operare sarà fonte di autogratificazione e si raggiungerà una pace interiore, che, agli occhi del mondo, apparirà come soprannaturale.

Questo è il messaggio che trasmetto al traguardo dei miei 60 anni di laurea.

di LUCIANO PECCHIAI

La relazione: l'essenza dell'arte medica

i medici si raccontano

 

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